Post a cura di Alessandro Faini, Lorenzo Scalzitti e Luca Poggi di Rethinking Economics Italia, associazione studentesca volta a promuovere il pluralismo nell’insegnamento dell’economia –
In mezzo al dibattito sulle disastrose conseguenze del Coronavirus, molte voci si sono levate ad acclamare la rilevata riduzione dell’inquinamento come punto di svolta per la lotta ambientale. Se guardiamo al passato, tuttavia, c’è il rischio che si stiano sbagliando di grosso.
L’inquinamento atmosferico è una delle maggiori cause di morte in tutto il mondo: ogni anno, più di quattro milioni e mezzo di persone perdono la vita per ragioni strettamente collegate alla pessima qualità dell’aria che respiriamo [1]. Tuttavia, i leader politici di tutto il mondo non sono mai riusciti a mettere in gioco delle iniziative che potessero sancire la fine di questo problema.
La pandemia globale di COVID19 ha significativamente diminuito i livelli di produzione industriale, di trasporti e di consumo energetico. Ancora una volta è proprio la natura a fare quello che non siamo riusciti a fare noi: le emissioni globali di CO2 sono precipitate del 17% [2], determinando un netto e peraltro visibile miglioramento della qualità dell’aria. Per citare un esempio, Marshall Burke, professore all’Università di Stanford, ha stimato che la recente riduzione dell’inquinamento in India ha salvato fino a 17 volte le vite che il coronavirus ha terminato.
Nonostante ciò, dobbiamo tenere a bada l’entusiasmo. L’incredibile riduzione di emissioni a cui abbiamo assistito per effetto del rallentamento dell’economia globale non rispecchia un cambio strutturale del modello di produzione e consumo umano, bensì dà uno stop meramente temporaneo che potrebbe fare più male che bene in quanto sposterebbe attenzione e risorse dall’agenda politica ambientale una volta che le misure di confinamento verranno interamente rimosse. Basandoci sui dati di Paesi e regioni nel mondo che hanno già riaperto la loro produzione industriale e hanno ripreso a consumare, la stima della riduzione delle emissioni globali nel 2020 si attesta tra il -4.2% e il -7.5% [3], una figura molto più ridotta rispetto a quanto visto sopra (-17%). Il rischio è che la ripresa economica ottenga la precedenza su processi come la decarbonizzazione. L’inquinamento torna a salire e, guardando al passato, questo sembra essere inevitabile.
L’EFFETTO POST-CRISI
Negli anni, diversi studi hanno più volte confermato l’esistenza di un intimo legame tra un’economia prosperosa ed un abbassamento della qualità dell’aria [4]. Detto ciò, e sapendo che una severa crisi non può che essere fronteggiata con una forte ripresa economica, dovremmo stare attenti agli effetti negativi che questo rilancio di produzione e consumo può avere sull’ambiente, già fragile e trascurato nei secoli. Se però l’unica preoccupazione di governi, individui e aziende sarà di riprendersi al più presto dal deterioramento delle attività economiche provocato dai mesi di ‘lockdown’, allora torneremo a produrre e consumare come e più di prima, noncuranti degli effetti ambientali.
Per questo articolo, abbiamo deciso di analizzare degli indicatori sulle emissioni di CO2 pubblicati dalla Banca Mondiale, in cui abbiamo riscontrato una tendenza crescente negli scorsi 50 anni intervallata solamente da qualche caduta, che raramente è durata più di due anni. Gli indicatori fanno riferimento all’emissione di CO2 (kt) totale e decomposta in emissioni da combustibile gassoso, combustibile liquido e combustibile solido, in modo da poter investigare separatamente le emissioni da diversi settori.
Soffermandoci sul consumo totale di combustibile, possiamo vedere che il primo calo viene registrato nel periodo 1974-75, il secondo tra 1979-1983, il terzo nel 1991-1993 e il più recente nel 2008-2009. Confrontando il grafico sulla crescita del PIL mondiale, è interessante notare come questi periodi coincidano con quelli in cui c’è stato un rallentamento del tasso di crescita globale
Sembra dunque chiaro che quando l’economia si ferma, l’ambiente torna a respirare. Tuttavia, l’osservazione chiave per gli autori di questo articolo è che i livelli di inquinamento durante la ripresa economica sono sempre più ripidi rispetto al calo causato dalla crisi.
Volgiamo ora lo sguardo alle varie componenti dell’indice di emissioni. Abbiamo riportato qui sopra il grafico che si riferisce alle emissioni di anidride carbonica derivanti combustibile gassoso, che fa principalmente fede ai livelli di consumo domestico come riscaldamento e cucina. Dato che questo tipo di consumo è altamente ‘inelastico’ in quanto essenziale per le famiglie, ci aspettiamo di vedere lievi cali durante i periodi di crisi. Infatti, il grafico registra solamente quattro cadute nel periodo in questione, per di più molto brevi rispetto alle emissioni totali. È però utile notare come sia proprio il consumo di combustibile gassoso ad essere aumentato di più dal 1970 al 2010 (+200%).
Quando parliamo invece di emissioni di CO2 da combustibile liquido, ci riferiamo principalmente al consumo di petrolio e derivati, dunque trasporto e produzione industriale. Come si può ben immaginare, questo indicatore è molto più sensibile del precedente a rallentamenti nella crescita economica globale in termini di durata e importanza della diminuzione di inquinamento. Il grafico ci mostra come i livelli d’emissione di anidride carbonica da combustibile liquido seguano l’andamento delle emissioni totali di CO2 per i primi 10 anni, in particolare durante i due cali del 1974-1975 e del 1979-1983. Dopo di che, il decennio 1980-1990 è ‘a forma di U’ con un lieve incremento nel livello d’emissioni tra inizio e fine del periodo. I cali del 1998-1999 e del 2008-2009 seguono le dinamiche dell’indice emissioni totali. Il calo del 1991-1992 è invece più breve di un anno rispetto al primo grafico. Nel 2001-2002 e nel 2006-2007 vediamo più una temporanea sospensione che un vero e proprio calo. Queste figure suggeriscono che anche in questo caso che la ripresa è sempre più ripida della caduta. Infine, il consumo di petrolio e derivati è aumentato del 100% dal 1970 al 2014. Ad oggi non ci sono ancora chiari dati globali riguardanti il calo manifestatosi con la chiusura delle economie in tutto il mondo in risposta alla pandemia eppure si può predire con sicurezza una forte caduta di questo indice. Il nostro ragionamento viene dunque confermato se teniamo conto della recessione economica globale di questa prima metà del 2020.
L’ultima analisi che vi proponiamo riguarda le emissioni da combustibile solido che si riferisce prevalentemente all’utilizzo di carbone come fonte di energia. Anche questo indice si comporta in modo analogo rispetto alle emissioni totali: il primo calo (o meglio, rallentamento) avviene nel 1974-1975; poi ce ne sono altri nel 1980-1981 e 1982-1983, nel 1989-1991 e 1992-1993, 1997-1999 e nel 2013-2014. Il consumo di carbone è aumentato del 200% dal 1970 al 2014. Da questi dati possiamo vedere come non ci siano state cadute significative durante i periodi di crisi, mentre le riprese mostrano sempre picchi impressionanti.
Sembra dunque chiaro come non sia la prima volta in cui una crisi induce una riduzione di breve durata dell’inquinamento seguita da un veloce ritorno, se non un superamento, dei livelli originali di emissioni non appena l’economia torna a crescere.
Per fortuna, però, c’è qualche barlume di speranza se guardiamo al passato. Fu infatti dopo le crisi del petrolio durante gli anni Settanta e Ottanta che le fonti energetiche rinnovabili iniziarono a guadagnare terreno rispetto a quelle tradizionali. Tuttavia, questo potrebbe non ripdetersi nella situazione odierna in quanto il prezzo estremamente basso del petrolio rende assai conveniente tornare ai consueti modelli di produzione e consumo.
Un ultimo elemento da non sottovalutare è il cosiddetto rischio di “azzardo morale”. Aziende ed individui potrebbero attribuire minore attenzione all’ambiente, per esempio trascurando l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili, in quanto l’opinione pubblica non è più così concentrata sul processo di decarbonizzazione come lo era prima della crisi sanitaria ed economica scatenata dal coronavirus.
SCENARIO POLITICO E CONCLUSIONI
Nessuno può predire con certezza quali saranno gli impatti finali della pandemia sulla nostra società. È però essenziale che i leader politici di tutto il mondo non perdano di vista quali erano le priorità globali prima dell’arrivo del virus, cercando di imparare dal passato che i livelli di inquinamento dopo una crisi tendono a crescere velocemente. Si dovrebbe cercare di cavalcare l’onda di questo breve miglioramento della qualità dell’aria per innescare dei cambiamenti strutturali di più lunga durata promuovendo modelli di trasporto, produzione e consumo a bassa emissione di anidride carbonica.
Perché aspettarsi che questa volta sarà diversa rispetto al passato? Oggi c’è una forte pressione internazionale nei confronti di politiche “green”. Come ci hanno mostrato vari movimenti globali, le persone, e soprattutto le generazioni più giovani, sono a conoscenza dei rischi legati all’inquinamento atmosferica e non sono più disposti a farsene carico. In più, è di cruciale importanza fare leva sugli obiettivi, risorse e strumenti introdotti dall’Accordo di Parigi, che è stato finora ampiamente ignorato.
Per capire lo stato del dibattito politico attuale in un contesto così imprevedibile basta concentrarsi sugli avvenimenti interni all’Unione Europea. La Commissione Europea ha annunciato di essere determinata ad includere l’ambizioso “Green New Deal” nel prossimo budget europeo 2021-2028. Tra i vari leader che hanno pubblicamente sostenuto l’importanza di non trascurare la transizione energetica verso un mondo più sostenibile c’è anche il presidente Francese Emmanuel Macron.
Un’aspra opposizione, però, rende le cose molto più complesse. Il primo ministro ceco ha introdotto modestissime politiche ambientali nazionali, come hanno fatto anche gli altri Paesi ex-sovietici che condividono lo stesso modello economico largamente dipendente dal carbone, e si dice preoccupato dalle misure Europee che vogliono limitare le emissioni e dunque minare una veloce ripresa economica della Nazione.
Inoltre, le associazioni europee di costruttori, fornitori e riparatori di veicoli stanno esercitando forte pressioni contro l’ambizioso Green New Deal. In una lettera pubblica indirizzata alla presidentessa della Commissione, Ursula von der Leyen, essi esprimono profondi timori per la tempistica di tali politiche “green” che danneggerebbero in modo significativo le loro attività commerciali in un periodo in cui dev’essere invece centrale agevolare la ripresa economica.
Quella che porta ad un modello energetico più sostenibile in tutto il mondo è decisamente una strada in salita. È fondamentale che la risposta alla crisi in settori come il commercio internazionale, la produzione industriale, il consumo energetico, il trasporto, segua un “fil rouge” incentrato sulla protezione dell’ambiente. La nostra idea è che le politiche ambientali non debbano essere sacrificate in nome della ripresa economica, bensì esserne il fulcro. Altrimenti ci ritroveremo molto presto a dover affrontare problemi molto più gravi.
Se il rischio è quello di tornare alla normalità e dunque ad inquinare ai livelli pre-crisi, allora è nostro compito ridisegnare la nuova normalità