Tutti
abbiamo fatto l’esperienza di salire su uno dei nostri monti e guardare
il panorama che si stende ai nostri piedi. Vedere questo nostro mondo
quotidiano rimpicciolito dalla distanza, mentre ci giunge attutito il
brusio della vita, ci dà la sensazione di staccarci dalle schiavitù del
tempo e la voglia di immaginare un modo di vivere diverso.
Disegnare un piano regolatore è un po’ come salire su un monte e
guardare dall’alto il nostro Comune, per immaginare un modo di vivere
migliore, più tagliato sulla misura umana. È un esercizio di guardare il
territorio con un po’ di distacco, cercando di decifrare quei segni che
ci mostrano i punti forti dell’armatura territoriale (che, guarda caso,
coincidono quasi sempre anche con il nostro giudizio di bello) e
quelli che ne denunciano i punti critici (come le aree in via di
trasformazione: edificati radi, abbandoni agricoli, cave in esercizio,
frane, cui non riusciamo ad attribuire una funzione positiva, e che sono
quindi elementi di rottura e di disturbo nel contesto del paesaggio).
L’obiettivo di un piano regolatore comunale è quello di valorizzare da
un lato gli elementi positivi del territorio e dall’altro di agire sugli
elementi negativi riqualificandoli, cioè indirizzandone la
trasformazione verso situazioni di maggior valore Cioè di immaginare un
ambiente migliore e più ricco di opportunità, a partire però da una
valutazione concreta delle risorse disponibili.
Non si può fare a meno, per esempio, di riconsiderare dopo la recente
alluvione la situazione del rapporto tra gli abitati e i corsi d’acqua.
Un compito importante di questa nuova generazione di piani sarà proprio
quello di valutare l’opportunità della scelta tra la costruzione di
opere di difesa e lo spostamento di popolazione. Certo questa seconda
opzione (delocalizzare, come oggi va di moda chiamarla) ha degli alti
costi sociali; ma senza dubbio avrebbe anche dei risultati concreti
sulla sicurezza e sulla qualità della vita: basti pensare a quante
persone non riescono più a dormire nelle notti di pioggia. Allora un
piano potrebbe darsi l’obiettivo di delocalizzare per fasi e per fasce
di rischio in collaborazione con la popolazione coinvolta, conciliando
la manovra con i tempi e le esigenze dei singoli e scaglionandola in
cinque/dieci anni. Potrebbe anche essere l’occasione per i Comuni di
prendere finalmente in mano lo spinoso problema della ristrutturazione
degli abitati storici, (che in fondo si sono per l’ennesima volta
dimostrati i luoghi più sicuri, pur con qualche eccezione) consentendo
anche eventualmente un’aggiunta di volumetria per concentrare la
popolazione in quei luoghi. che la storia ha già selezionato come più
sicuri. La nuova legge urbanistica offre ampie possibilità di immaginare
operazioni innovative nel campo del recupero. Come d’altra parte non si
può fare a meno di riconsiderare il fitto dedalo di stradine comunali e
private, trasformatesi durante l’alluvione in veri e propri torrenti, e
di pensare ad una razionalizzazione di questa rete che permetta un
maggior controllo nelle situazioni di emergenza.
Per il passato, il compito della pianificazione è sempre stato lasciato
all’Amministrazione Comunale, e il rapporto tra questa ed i singoli
privati è sempre stato in fondo un rapporto di reciproco ricatto – da un
lato un bene comune a volte astratto o di difficile comprensione, che
per mano dell’Amministrazione impone ai privati dei sacrifici;
dall’altro lato la richiesta del singolo contrappesata dal potere del
voto. Ora però l’esperienza dell’alluvione ci ha fatto ritrovare il
significato di una cultura che sembrava perduta, quella delle
solidarietà del villaggio, della capacità di far fronte comune davanti
al pericolo. Nei momenti in cui l’acqua ha minacciato le nostre vite,
nessuno giustamente si è opposto allo scavare un fosso o a demolire un
muretto che ne impediva il flusso, anche se posti sulla proprietà
privata. Non lasciamo cadere nel nulla questa recuperata capacità di
guardare insieme l’interesse comune, ora che si porrà il problema della
pianificazione; soprattutto, non lasciamo sola l’Amministrazione
Comunale a dover mediare tra gli interessi dei cittadini, ma proviamo a
immaginare un modo nuovo di rapportarci col territorio, confrontandoci
insieme sugli obiettivi e contrattando insieme i vantaggi e i sacrifici
che spetteranno a ciascuno. Il territorio è un bene di tutti, e così
come tutti lo usiamo, così anche tutti insieme siamo tenuti a
difenderlo.
E’ il caso per esempio delle aree esondabili della Dora e dei torrenti,
che sempre più dovranno essere recuperate alla loro funzione di naturale
cassa d’espansione e di deposito dei materiali solidi
trasportati dall’acqua. Ora, i vincoli posti a tutela di un interesse di
tipo generale (così come per la tutela idrogeologica o quella
paesistica) non sono, per la loro stessa natura giuridica,
indennizzabili; ciò non toglie che il Comune, nella redazione del piano,
tenga in qualche modo conto dei sacrifici imposti ai singoli privati ed
operi una perequazione con facilitazioni o vantaggi su altri fronti.
Così come la delocalizzazione non potrà essere considerata un problema
dei singoli, ma dovrà essere oggetto di una concertazione e di un
apposito programma in sede comunale. L’importante è che questo processo
assuma una sua evidenza pubblica, che conduca a una decisione condivisa e
trasparente. Molte volte mi è capitato di raccogliere lo sfogo di
cittadini che dichiaravano che avrebbero concesso volentieri
gratuitamente la striscia di terreno per la strada o il parcheggio, di
cui ben riconoscevano l’utilità, ma che avrebbero voluto partecipare
alle scelte di progetto, mentre si sentivano offesi dalla notificazione
di un esproprio avviato del tutto a loro insaputa, o in relazione ad
interessi che ritenevano più privati che pubblici. Di fronte ad un
problema discusso e ad un interesse riconosciuto come collettivo tutti
probabilmente sono più disponibili ad assumere la loro parte di
responsabilità; così come è giusto l’apprezzamento e il riconoscimento
sociale del sacrificio di ciascuno.
Se il compito della pianificazione locale, in questa nuova prospettiva
che il Piano Territoriale Paesistico ci offre, è l’individuazione delle
prospettive di sviluppo sostenibile del Comune, la prima operazione da
fare è esaminare quali pregi e quali criticità o svantaggi
caratterizzano l’ambiente in cui viviamo.
Queste risorse e limiti che abbiamo a disposizione sono i dati materiali
del problema, ma a questi va aggiunto un altro dato basilare su cui
impostare i nostri ragionamenti: le prospettive, le attese, le capacità
imprenditoriali che la popolazione investe o è disponibile a investire
sul territorio. Quest’ultimo dato è di più difficile valutazione, perché
perviene di solito all’Amministrazione solo nella forma di spinte e
richieste d’uso del suolo dei singoli cittadini, e normalmente quindi
rischia di diventare un elemento di conflitto sociale. Troppo spesso
infatti il concetto di sviluppo locale è stato assunto nei PRGC solo in
relazione alla destinazione d’uso del suolo (zonizzazione), e
quindi in realtà come consumo di territorio – modalità che è del tutto
antitetica al concetto stesso di sviluppo. Occorre invece invertire il
nostro modo di ragionare e incominciare a mettere al primo posto le
risorse umane.
La domanda cui il piano deve rispondere non è che forma avrà o come
useremo il territorio, ma è cosa siamo capaci di produrre, cioè di che
cosa vivremo, che lavoro faremo e quali risorse lasceremo a chi verrà
dopo di noi per inventare nuovi modi di vivere.
PIANI REGOLATORI COMUNALI
Dai PRGC della nuova generazione ci aspettiamo qualche cosa di
nuovo, a partire dal fatto che essi dovranno instaurare, a monte di
qualsiasi disegno, dei processi conoscitivi spesso anche diversi dalle
analisi tradizionali, volti a:
· un’attenta valutazione delle risorse umane e imprenditoriali;
· un processo di coinvolgimento e partecipazione della popolazione: un piano non è uno strumento tecnico, ma un patto sociale;
· una politica di risparmio e non più di consumo di suolo – la nuova
legge urbanistica dispone tra l’altro che per prima cosa debbano essere
identificati e salvaguardati i buoni terreni agrari, già così scarsi in
un territorio di montagna;
· una politica di valorizzazione degli insediamenti storici e delle risorse naturali;
· una considerazione dei movimenti delle persone – cioè delle
infrastrutture di trasporto viste non solo nei loro aspetti fisici ma
anche in quelli gestionali;
· una razionalizzazione dei costi pubblici, attraverso il miglior utilizzo delle strutture già esistenti;
· una riqualificazione dei siti degradati e degli ambienti di qualità scarsa;
· una più elevata sicurezza nei confronti dei rischi naturali.